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RIDISEGNARE
LA CITTA’ ANTICA NEL SEGNO DELLA QUALITA’
di fabio alfano
su la repubblica
palermo del 20 novembre 2007
Quale contemporaneità
si prefigura per il centro storico? Si, abbiamo ancora crolli, problemi
di sopravvivenza (i senza casa), bisogni primari da risolvere definitivamente,
ma non possiamo certo perdere l’occasione dell’aggiornamento
e revisione del piano particolareggiato uscente e della scelta, in atto,
di chi dovrà indirizzarlo su tutti i fronti. E dobbiamo porci alcune
domande. Anzitutto: quale visione attuale abbiamo per questo tessuto storico
dalle grandi potenzialità urbane, qualità rare in una città
la cui ‘modernità’ è stata ed è un vero
disastro? Perché una certezza ci deve essere data: quella che si
stiano creando le giuste premesse per rendere realmente ‘attuale’
una porzione di città fondamentale per la contemporaneità
della intera Palermo.
Poiché la città è dei cittadini e ne è macroscopico
riflesso, il grado di contemporaneità che il centro storico potrà
raggiungere non può essere stabilito che in accordo con chi vive
a Palermo. Anche perché non possiamo più tollerare una città
imposta dall’alto che piace, per esempio, solo a chi governa, pro
tempore; è passato, spero, il tempo in cui imperatori, re
e viceré o altri meno titolati costruivano o trasformavano la città
a loro immagine e somiglianza. E ciò soprattutto per assicurare
il buon fine delle trasformazioni ipotizzate che, se condivise dai cittadini,
avranno un futuro, perché da loro stessi garantite. Se invece subite,
saranno la premessa per un annunciato fallimento. Ma, per partecipare,
la cittadinanza deve essere informata e sensibilizzata, e soprattutto
deve avere chiare le alternative, se no che scelta è? Un cruciale
bivio che si configura ancora una volta, e in questo l’indirizzo
dei consulenti ricercati dal bando emesso e di chi li sceglierà
risulta fondamentale, è: conservazione ad oltranza o apertura al
nuovo? Riconfigurare quello che c’è avendo a modello una
Palermo del passato, come disposto dallo scaduto piano, oppure introdurre
anche spazi, forme e linguaggi del presente? Bel quesito. Una questione
che già in genere spacca in due, in quanto c’è chi
ritiene che i tessuti storici, sufficientemente densi di valenze architettoniche
e artistiche del passato, vadano recuperati per quello che sono, e l’introduzione
del nuovo potrebbe annullare alcuni dei loro valori, e chi invece considera
naturale alternare, proprio in nome del processo evolutivo della storia,
la riconfigurazione del preesistente con nuove spazialità. Questo
ovviamente laddove sia possibile e vantaggioso.
Qui a Palermo la questione si complica ulteriormente, perché non
solo non abbiamo una esperienza dell’architettura dei nostri giorni
esempio rassicurante per il cittadino e l’amministratore, ma anzi
il costruito degli ultimi decenni crea confusione e preconcetti sugli
approcci contemporanei, rifiutati dai più. E’ proprio per
la mancanza in generale di una coscienza architettonica che ad alcuni
può sembrare giustamente una follia consentire interventi non controllabili
da regole e codici prestabiliti in una parte di città che di buona
architettura invece è fatta. E il piano uscente, dobbiamo dare
atto, seppur non ha reso possibile l’introduzione dell’architettura
contemporanea per lo meno ha scongiurato un centro storico fatto di ‘condomini‘.
Infine, ma di non poca rilevanza, tra i cittadini è presente, e
non a torto, una sfiducia nelle istituzioni e nella loro capacità
di farsi garanti della qualità del territorio.
E allora subentra un’altra domanda. Ci salvaguardiamo da costruzioni
‘inopportune’ per il centro storico fino a rinunciare totalmente
all’architettura dei nostri giorni, la cui qualità non potremmo
controllare, o riteniamo che i tempi siano maturi per aprirsi, con cautela,
ad un presente positivo per la rivitalizzazione di questa area storica?
I dubbi sono tanti. Ma si annullerebbero fino a tramutarsi in certezze
se fossimo rassicurati sulla qualità con cui si pensa di condurre
il tutto. Ma non a parole, nei fatti. Qualità innanzitutto da parte
dell’amministrazione che deve rendere note a tutti le intenzioni
e le azioni previste con incontri, mostre, dibattiti. Qualità richiesta
ai cittadini che con responsabilità devono partecipare - non possiamo
solo lamentarci – proponendo, vigilando, criticando se necessario
e soprattutto ottenendo. Qualità da parte delle istituzioni formative
e culturali, quali per esempio l’università, delle categorie
professionali interessate e loro Ordini, che devono affiancare i vari
passaggi di questo processo con una partecipazione diretta o, se questo
non fosse possibile, almeno con un dibattito culturale che chi fa le scelte
operative non potrà non prendere in considerazione. Qualità
poi dell’architettura, che dovrebbe essere comunque la protagonista
di questo nuovo piano.
E’ si un piano urbanistico, da fare con la storia, l’economia,
la sociologia, leggi, problematiche di restauro e riuso, ma dovrebbe essere
anche uno strumento che entri nel merito della scala architettonica. Questa
porzione di città necessita di precise indicazioni sulle strade
e piazze da ridisegnare, gli edifici da inserire o eliminare, vedute e
profili da privilegiare, ecc., non solo usi, percorribilità, reti
fognarie o restauri filologici. E queste indicazioni possono scaturire
solo dalla sensibilità dell’architettura la sola che può
ricucire, sanare, completare, creare relazioni significative tra le parti,
e su questo non dovrebbero esserci dubbi. Semmai la questione è
se questi interventi a scala architettonica necessari possono essere fatti
solo attraverso approcci, regole e codici formali del passato. Se questa
condizione ‘limite’, che potrebbe essere riconfermata, ci
farebbe raggiungere l’obiettivo affermato in premessa: rendere il
centro storico realmente ‘attuale’. O, dobbiamo invece aprire
le porte ad una modernità che, non creando finti passati e falsi
presenti, conferisce identità a ciò che è e a ciò
che è stato?
La coppia di termini in opposizione allora non è più ‘conservazione’
o ‘innovazione’ ma qualità e non qualità. Se
uno spazio è di qualità, e lo è solo se crea bellezza
ed è in armonia con il resto, poco importa se è del Settecento
o di oggi. Affrontato così il problema, ieri o oggi, diventa solo
un fatto di preferenza personale. Ma una preferenza, credo, non dovrebbe
escluderne un’altra.
Ma chi stabilisce allora lo standard di questa qualità invocata
e chi o cosa lo può concretamente assicurare? In realtà
non c’è alcuna legge, regola o manuale che possa garantire
un costruire di qualità, perché esso attiene ad un esigenza
comune, un comportamento condiviso. E’ possibile però fare
delle scelte per ottenere il risultato sperato. E queste sono: la trasparenza
delle procedure, i processi di conoscenza e di sensibilizzazione, la partecipazione
e il controllo dei cittadini, il confronto con l’esperienza di altre
città. Il coinvolgimento di professionisti liberi di proporre la
loro qualità. I concorsi, non solo di idee, che forniscono una
grande quantità di soluzioni per un solo problema. La qualità,
infine, l’assicurano le scelte, da parte di tutti, senza di tornaconti
personali, e con unico presupposto il reale bene della collettività.
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