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L'ESTETICA DI PALERMO
di fabio alfano

su la repubblica palermo del 26 ottobre 2007

Non è certamente un caso che la parola estetica contenga la parola etica: gli ambiti infatti a cui i due termini si riferiscono sono in stretta relazione. Dove c’è estetica c’è anche etica e viceversa, non è possibile il contrario. Questo, oltre ad essere un tema centrale della filosofia, dell’arte, trova una delle sue tante applicazioni, nella relazione spazi abitativi e abitanti. A certi modi di pensare, convincimenti, comportamenti corrispondono determinati spazi, case, città, territori. Schemi di pensiero consapevole, creativo, innovativo, sono il presupposto per spazi nuovi, funzionali, con qualità estetiche; schemi limitanti, di non conoscenza creano staticità, degrado, distruzione.
Palermo ovviamente non sfugge alla regola, come ogni altra città del mondo: la sua fisicità riflette pienamente l’etica dei suoi abitanti (governanti e governati). Uno specchio della storia passata e recente ma soprattutto dell’ora.
Nella città generata dagli anni ‘50 in poi (gran parte della città attuale), fatta solo di volumi di cemento, invasivi, anonimi, senza qualità e cultura, non è difficile riscontrare il senso di sopraffazione (passività e il sentirsi perdenti) che accompagna spesso noi Palermitani. Nel degrado diffuso, dal centro storico ai quartieri più periferici, ferite aperte che tanto affascinano Wenders per il suo film su Palermo, la sofferenza o il semplice disagio che molti sperimentiamo quotidianamente. Nel brutto che dilaga a discapito del bello la nostra immagine che sempre più si deforma, nella sporcizia e nell’inquinamento il poco rispetto che nutriamo per noi stessi, nella assenza totale di contemporaneità l’essere da sempre separati e in ritardo rispetto a quanto succede nel resto del mondo. Le strade, le piazze, gli edifici di Palermo, allora, ‘nudità’ non celabili per chi le vuole veramente osservare, rivelano l’autentico status della città e di chi la abita, non lasciando quindi posto ad altra verità si tenti di sovrapporre. Se a Palermo c’è assenza di bellezza, qualità, innovazione, buon vivere c’è anche mancanza di etica, e questo dovrebbe essere abbastanza logico per tutti. Come altrettanto logico è che non ci sarà mai una Palermo più ‘bella’, quella che oggi molti invocano, se non ci sarà una città più ‘vera’, più ‘buona’, più ‘giusta’ (per rimanere all’interno dei quattro parametri dell’etica classica). Nuovi segni, forme, spazi non possono essere che conseguenza di una nuova riflessione su ciò che è bene e male, non per una o poche persone ma per l’intera collettività. Questa riformulazione dell’ethicos e dell’aisthetikos deve riguardare quindi tutti, nessuno escluso: la classe politica, gli addetti ai lavori, ma soprattutto ogni singolo cittadino. La città cambia se cambiamo innanzitutto noi, non c’è altra possibilità.
E’ interessante notare che in questo momento forti sollecitazioni di carattere etico, e quindi estetico, provengono invece dagli artisti di ogni categoria, cantanti, attori, comici, architetti, figurativi, registi, ecc. Qui, per esempio, siamo stati appena travolti dall’inaspettata, e disorientante per molti, visione positiva e spirituale della vita del noto regista David Linch, a Palermo per contribuire alla costituzione di una scuola di meditazione.
Molte città nel mondo (anche Napoli, Genova, Roma, Torino, Milano, ecc.) hanno capito. Sono luoghi dove assistiamo sempre di più a fenomeni di trasformazione di spazi, assai carenti di un buon e bel vivere, secondo nuovi modi, positivi, di concepire la vita e i giusti spazi per esprimerla. Modificazioni promosse da buone amministrazioni, talvolta spinte da interessi privati, ma anche indotte da singoli, gruppi, piccole collettività che, guidati da un ideale sociale o artistico (molti casi) mettono in atto incisivi processi di metamorfosi di edifici, strade, interi quartieri. E dove fa da protagonista l’arte non è più esclusiva, elitaria ma diventa dimensione estetica di un quotidiano che vuole essere vissuto con i valori che costituiscono l’arte: creatività, invenzione, espressività, relatività, gioco, ironia.
Questa del resto è l’epoca dell’immagine, del visivo, del figurativo, lo sappiamo bene, per esperienza diretta della tv, del cinema, delle arti figurative, della pubblicità, delle città, anche delle nuove pedagogie, e perché spesso evidenziato in molti contesti. Siamo immersi in un flusso di immagini varie e differenziate, semplici e complesse, evolute rispetto al passato, che ci dicono di più realtà. Ed è proprio questa nuova esperienza visiva che, se da un lato ci confonde e ci fa perdere il senso di cosa vediamo, dall’altra affina e rende più esigente il nostro sguardo quale efficace mezzo di conoscenza. Ma conoscere l’esterno è anche conoscere se stessi in relazione ad esso, è mettere ordine dentro. Questo ordine chiaramente poi lo vogliamo anche fuori, nelle cose che ci circondano perché in esse ci identifichiamo. E il ciclo ricomincia.
Allora, più etica ed estetica anche nella nostra città incominciando, noi cittadini, a riconoscere cosa etico ed est-etico non è. Non è etica, dal mio punto di vista, la nostra indifferenza, il sentirci de-responsabilizzati rispetto a come le cose vanno, o peggio ancora sentirci impotenti e rassegnati alla irresponsabilità altrui. Non sono etiche le nostre scelte di tornaconto personale, di vantaggio individuale a discapito degli altri e del territorio, non agire secondo un senso di collettività. Non è etico mistificare, illudere gli altri, se stessi.
Come non va in direzione dell’estetica continuare a ritenere ‘normale’ una città con questa fisicità, non attribuire senso e qualità allo spazio in cui spendiamo gran parte della nostra vita, continuare a costruire o ristrutturare spazi senza ‘pensare’, progettare, non richiedere qualità architettonica per ciò che non la ha mai avuta. Non è estetica buttare una carta per terra, imbrattare con vernici e manifesti abusivi i muri, inquinare.
E andando più nel concreto, solo per fare degli esempi, non è etico ed est-etico da parte di tutti non pretendere con determinazione che si riconfiguri la parte di città senza volto con interventi significativi sul suolo pubblico e leggi speciali e incentivi economici sulla proprietà privata (edifici residenziali e commerciali), che si riprogettino certe piazze nevralgiche della vita cittadina, piazza Politeama, Verdi, Indipendenza o altre quali, piazza Magione, piazza Alcide De Gasperi, ecc. ,ma anche intere strade, che si rifondino molti dei quartieri periferici come Falsomiele, Borgo Ulivia, Zen,… che sia ri-pensato tutto il sistema del verde (dal parco urbano al semplice albero sul marciapiede), che si regolino insegne e vetrine, che si commissioni un dignitoso arredo urbano, che sia dato ampio spazio all’architettura contemporanea (con nuovi edifici o ristrutturazioni di quelli esistenti) e all’arte (in strada oltre che nei musei), che tutto questo sia fatto con una organica e dettagliata programmazione di interventi voluti, partecipati e condivisi da tutta la collettività.
Una città, dobbiamo averlo chiaro, sebbene fenomeno ampio e complesso, è un sistema trasformabile e così i suoi valori estetici, e la storia dell’architettura e dell’urbanistica ce lo attesta chiaramente, lo stesso nostro sviluppo urbano. In altre e più efficaci parole, che Palermo sia stata ridotta in questo stato non significa che così “ce la dobbiamo piangere” per sempre. Questo cambiamento, però, non lo possiamo certo ottenere con interventi episodici, lenti, scoordinati, dispersivi, spesse a volte solo auto-referenziali, che hanno la forza di gocce versate in un mare in tempesta. Ci vogliono azioni decise, forti, raccordate, durature nel tempo (il coraggio di demolire, per esempio oltre che di ricostruire), disposte ovviamente dalle amministrazioni (che si devono mettere a servizio di tutto questo), ma volute fermamente e indirizzate da chi in questa città vive. Una possibilità di cambiamento dunque che parte dal basso, dalla coscienza di una cittadinanza che, senza perdere ulteriore tempo, deve superare il pre-concetto della difficoltà o ancor peggio della impossibilità. Cambiamo il nostro modo di pensare, ripeto, e cambierà la città.
La “Storia della bruttezza” di Umberto Eco, uscita in questi giorni, tradotta in 27 lingue, è la storia, del brutto reso bello dall’occhio, dal sentimento e dall’arte di chi lo ha osservato. Con questo tipo di sguardo e di coscienza potremmo provare ad osservare e trasformare Palermo, ad iniziare, per esempio, dall’attualmente dibattuto Pizzo Sella.