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PALERMO O
IL MALESSERE DELL'ABITARE
di fabio alfano
su la repubblica
palermo del 28 luglio 2007
Non c’è
atto della nostra vita, dalla nascita alla morte, che non sia compiuto
all’interno di spazi, artificiali o naturali che siano. Non c’è
attività della nostra esistenza che non sia condizionata dalla
qualità di questi luoghi. Allora perché siamo ancora così
fortemente ignari della stretta relazione che lega noi alle cose che ci
circondano e continuiamo inconsapevolmente a subirne tutte le conseguenze?
E probabilmente ci illudiamo pure di ‘abitare’, nel senso
più originario del termine, di espletare al meglio l’atto
fondamentale dell’essere al mondo pensando di organizzarlo per il
migliore vantaggio nostro e altrui.
Ovviamente così non è, e la poca qualità della vita
che spesso lamentiamo lo rivela. Non abitiamo quindi, viviamo semmai ai
limiti del possibile. Alcune nostre esigenze trovano certamente risposta:
un riparo dove dormire, nutrirsi, incontrare gli altri (le nostre case),
luoghi dove svolgere il nostro lavoro o trascorrere il tempo libero, percorsi
su cui muoverci. Ma con quale qualità? Quale condizione psico-fisica,
tensione emotiva, coinvolgimento della nostra anima? Abitare, e l’esperienza
più che tanta letteratura lo insegna, non è semplicemente
stare in uno spazio, indifferenti totalmente a come esso sia fatto. Abitare
è creare relazioni significative tra noi e le cose fuori di noi.
Il vero abitare è la qualità della nostra esperienza. E’,
richiamando l’ancora oggi attuale pensiero fenomenologico esistenzialista,
“prendere misura di se stessi” nello spazio e nel tempo presente.
E questo tempo chiede di far abitare molteplici parti di noi, anche se
non ce ne rendiamo ancora conto.
Se queste considerazioni hanno validità in generale la hanno ancor
di più per Palermo (come per tante altre città italiane)
dove l’interazione abitante città non è certamente
vantaggiosa per il primo. E varie situazioni lo rivelano. A iniziare dalle
case, l’unico spazio che il palermitano sente proprio e cura. Pur
riconoscendo la presenza a Palermo di bellissime ‘dimore’,
la qualità abitativa mediamente raggiunta è bassa. Questo
sia laddove sussistono fattori condizionanti economici (case popolari,
dei ceti meno ambienti) o di tipologia (l’appartamento in condominio
compresso tra due solai con stanze tutte uguali servite da lunghi e bui
corridoi), sia dove gli ambienti vari e articolati offrono migliori presupposti
(case del centro storico, della città ottocentesca o le recenti
ville di periferia). Prevale comunque una assenza di progettazione, di
utilizzo cosciente delle condizioni a disposizione per ottimizzare spazi
e attività, soppiantata quasi sempre da un ‘fai da te’
che adotta modelli comuni, perlopiù di arredo, fondati su logiche
dell’apparire più che dell’essere: la casa in stile,
della memoria (mobili e oggetti tramandati da mamme a figlie), la casa
etnica, d’arte povera, pseudo-minimalista (parquet e muri bianchi),
la casa del design victim (come è stato definito su questo
giornale) in cui spesso l’oggetto più innovativo è
la sedia Kartell. Poca soggettività, creatività, espressione
individuale di chi abita. E comunque spazi domestici assai lontani dalla
ottima esperienza sulla casa espressa in altri territori (uno tra tutti
l’Olanda) e soprattutto da ciò che expo, biennali e saloni
del mobile di tutto il mondo mostrano come concreta possibilità
e direzione.
Se poi passiamo allo spazio collettivo urbano le cose precipitano. Oltrepassata
la soglia di casa, la nozione di spazio si indebolisce talmente che non
appena ci si tira dietro il portone si è già esaurita. In
strada non si è più ‘a casa’, nessuna responsabilità
quindi nei confronti della res pubblica. La sequenza di immagini
in cui ci si trova generalmente immersi è brani di città
senza alcuna forma e qualità (volgare edilizia), con qualità
ma perduta nel tempo (architettura degradata), spazi di notevole pregio,
recuperati ma offuscati dal degrado limitrofo (per esempio nel centro
storico). Lo sguardo orizzontale, attratto dai negozi piuttosto che dai
volumi, stempera fortunatamente tale percezione; anche se un occhio più
vigile, quello del cittadino creativo descritto da De Certeau nel suo
libro “Invenzione del quotidiano”, non manca certo di giocare
con tali masse di brutto che si auto alimentano di sempre nuovi segni
quali unità esterne di pompe di calore, serbatoi d’acqua
in pvc, antenne di tutti i tipi, canalette di plastica, verande e portoni
in alluminio anodizzato, insegne scriteriate, manifesti selvaggi e scritte
spray che non rispettano niente e nessuno.
L’errare per questa città impone, poi, un continuo esercizio
cinestetico per evitare di mettere i piedi su qualsiasi cosa e per scansare
le biciclette che giustamente pretendono il loro diritto di cittadinanza.
Non prevede quasi mai la sosta in una piazza, in linea con la più
alta tradizione italiana, in quanto quelle esistenti ospitano automobili
(piazza Bologni, Bellini, Croci, Unità di Italia …), recinzioni
o aiuole poco praticabili (piazza Marina, Kalsa, Indipendenza, della Pace.…),
manti erbosi utili soltanto per le occasionali Feste della birra (piazza
Magione). Fa eccezione la povera piazza detta Politeama, il cui rifacimento,
alcuni anni fa, non è stato abbastanza coraggioso da spingere di
qualche metro più in là le statue di Ruggero Settimo e di
Carlo Cottone principe di Castelnuovo (non me ne vogliano) per affrancarci
definitivamente da un impianto ottocentesco, e con esso da una mentalità,
che limita una impellenza di contemporaneità, affidata timidamente
dal progetto alle luci in fibre ottiche. Un invaso urbano iper-utilizzato,
non essendocene altri, con una quantità di attività politiche,
ludiche, commerciali, sportive, che spesso impropriamente si svolgono
e che devono contendersi il territorio con la nuova tribù urbana
di teenager del sabato pomeriggio.
Non ci resta allora che passeggiare. Comodamente soltanto sul breve boulevard
Croci-Politeama e adesso anche lungo il prato del Foro Italico dove pochi
elementi di design, inimmaginabili per Palermo, lo rendono luogo di grande
attrazione (oasi nel deserto) e simbolo di tutte le aspirazioni della
città. La promenade in altre zone ci riserva però
la possibilità di ammirare aiuole a tronchi mozzi (p.e. a piazza
Vittorio Veneto) o fontanelle in stile e pavimentazioni ad onde (via Notarbartolo)
quali elementi di nuovo arredo urbano, inaccettabili per una Palermo che
ancora oggi ospita raffinati lampioni, inferriate, chioschi di fine ‘800,
made fonderie Oretea, Basile, Rutelli.
Il centro storico, nonostante i grandi progressi, e pur contrapponendo
numerosi cantieri alle sempre presenti rovine, non riesce nel suo complesso
ad essere luogo del buon vivere. I quartieri di periferia sono territori
urbani estremi dove l’abitare è con-causa gravissima del
degrado umano fortemente presente (Borgo Ulivia, Falsomiele, Brancaccio,
Zen).
Nei parchi non ci andiamo in quanto inesistenti (Oreto?, Maredolce?, Orleans?)
tranne la Favorita dove chi fa jogging deve mettere in conto la possibilità
di partecipare, almeno visivamente, ad incontri sessuali di ogni genere
e tipo, evitando comunque a tutti i costi il Lunedì dell’angelo,
il 25 aprile e il primo maggio. I giardini ‘storici’ (Giardino
Inglese, Villa Giulia, …) non consentono un uso adeguato ai nostri
tempi. Il giardino della Zisa, una volta emblema di fasti, opulenze e
delizie, oggi una ‘meraviglia’ purtroppo mancata.
Capitolo a sé costituiscono gli edifici collettivi e pubblici.
Se entriamo nelle scuole (tranne pochissime) che tristezza, negli ospedali,
una vera disperazione! La bellezza delle nostre ecclesiae tiene ancora
testa all’arbitrio dei parroci di turno. Gli spazi museali, in tutto
il mondo luoghi di eccellenza della contemporaneità, sono qui ancora
proposti, anche se di nuovo impianto (il Museo d’arte moderna ?),
con concezioni, ristrutturazioni e allestimenti, seppur alcuni meritori,
obsoleti altrove da almeno 50 anni. Altri pluri annunciati rimangono eterna
promessa (Museo regionale di arte contemporanea, Palazzo S.Elia) altri
ancora, già funzionanti, vengono interamente chiusi per interminabili
ristrutturazioni (Cantieri Culturali della Zisa). I cosiddetti monumenti
(per esempio le dimore e chiese normanne) sono fuori da qualsiasi circuito
della quotidianità.. Pub, bar e ristoranti, anche se in luoghi
di grande suggestione, costringono i loro avventori, in particolar modo
d’estate, a sorseggiare esotici drinks e degustare Kebab e spaghetti
ai frutti di mare tra scarichi e rumori di macchine e cassettoni di immondizia
(i locali dell’Olivella, del Foro Italico e di via Torremuzza, dell’Arenella).
Tutto questo aggravato da inquinamento, disservizi e assenze di adeguati
mezzi pubblici di trasporto, rabbia e demotivazione, a livello locale,
effetti serra e cambiamenti climatici, a livello globale.
Quale ben-essere in questo abitare? Quale qualità? E soprattutto
per quale immodificabile sorte o motivo Palermo deve indossare questo
habitus visto e considerato che altri ‘abiti’ o ‘abitudini’
sono possibili?
Forse è giunto il momento di fermarsi un attimo, tutti - cittadini,
addetti ai lavori, politici che amministrano e non – e riflettere
sul verbo ‘abitare’, in relazione soprattutto a ciò
che è più conveniente per ognuno di noi. E per far questo
può tornarci utile richiamare la grande verità contenuta
in alcune parole del celebre scritto di Martin Heidegger (il cui titolo
è già di per sé una lezione) “Costruire, abitare,
pensare” che i “mortali (noi) dobbiamo ancora imparare ad
abitare”.
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