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IL BRUTTO
SOSTENIBILE CHE DISTRUGGE PALERMO
di fabio alfano
su la repubblica
palermo del 19 dicembre 2007
Forse i tempi
cominciano ad essere maturi per lanciare sos da più luoghi di Italia
riguardo al degrado del territorio in cui siamo costretti a vivere, ed
essere anche ascoltati. Molte infatti le denunce in corso, le iniziative
a vari livelli, anche il dibattito su questo giornale, e ciò fa
sì che almeno se ne parli. Anche Palermo allora vuole dibattere
sia per risolvere i problemi di casa propria, sia per fare da utile specchio
alle altre città. Perché a Palermo, e in generale nell’isola,
tutto è estremo e quindi evidente: o troppo bello o troppo brutto,
e per ora si è nel brutto non più ‘sostenibile’.
Sia il centro storico, sia le tristemente ‘note’ periferie
- Zen, Brancaccio - sia ancora la città di mezzo, quella degli
anni Cinquanta, Sessanta, frutto anche di una spietata speculazione mafiosa,
sono tessuti urbani affetti da totale assenza di cultura architettonica
e quindi da una o più declinazioni del brutto: dal degradato al
malfatto, dal mostruoso al banale, dal paradossale al kitsch. Una quantità
enorme di spazi, pubblici e privati, che avevano qualità e l’hanno
persa, che non l’hanno mai avuta. E poi gli spazi mai realizzati:
il brutto dell’assenza.
Palermo, pur possedendo luoghi ed edifici la cui bellezza affascina il
mondo (vedi l’attenzione da parte di registi, artisti,…) e
potenzialmente tutti i requisiti per un abitare di eccellenza (posizione
geografica, storia, cultura, arte, una ‘inossidabile’ identità,
ecc.), non raggiunge i minimi indispensabili per un abitare di qualità
medio bassa. E’ ben lontana quindi, o assai vicina per il fondo
toccato, dagli standard raggiunti un tempo che la hanno resa una delle
più interessanti capitali del Mediterraneo.
Questo è lo stato delle cose, verificabile da chiunque voglia,
perché inciso negli edifici, strade, piazze, anche se altro viene
fatto intendere da chi ha interesse a enfatizzare le poche iniziative
intraprese, quasi sempre autoreferenziali, che non apportano modificazioni
sensibili alla grave situazione.
Ma la cosa ancor più allarmante è la assuefazione di molti
dei palermitani. Il brutto e i suoi effetti negativi sono una condizione
di fatto alla quale non resta che rassegnarsi, qualora ancora ci si renda
conto. Le cose così sono, prive di ordine e bellezza, e così
rimarranno perché - dicono molti palermitani - a Palermo “così
è”. E questo giustifica il fai da te, l’abusivismo,
il costruire senza architetti e soprattutto senza architettura. Brutta
la città, allora, brutta la società e viceversa. Come si
esce? Di chi è la colpa?
Certamente la storia recente non essendo stata una storia del ‘bene’
non ha espresso il bello, né negli spazi né negli uomini
i quali si sentono sempre di più sopraffatti, anche da parte degli
edifici. Ma la storia sta forse cambiando. In questi mesi assistiamo a
una sorta di ‘saturazione’ dei cittadini, sempre più
insofferenti: e ci sono anche denunce pubbliche, arresti di mafiosi eccellenti,
ribellioni di associazioni imprenditoriali e di associazioni di giovani,
cambiamenti di coscienza. E dunque perseverare in una situazione dannosa
ritenendola normale questa sì che sarebbe una colpa. Anche perché
come si fa a vivere in luoghi esteticamente lacerati che, nel migliore
dei casi, offrono paesaggi urbani senza forma -le infinite distese di
aberranti condomini- incapaci di produrre emozioni positive per il nostro
essere nel mondo. Certo dipende da cosa intendiamo per abitare: se è
sopravvivere o è invece trarre il maggior vantaggio dai luoghi
che fanno da costante scenario a tutti gli eventi della nostra vita. Ma
poi perché rinunciare se cambiare è più conveniente?
E poi trasformare il brutto si può, perché reversibile,
e così lo stato delle nostre città, è scritto nella
loro storia, basta recuperarla. Ed è anche l’esperienza dell’arte
che passa dal brutto al bello trasfigurando i valori del primo; la “Storia
della bruttezza” di Umberto Eco in circolazione in questi giorni
- è forse un caso? - ce lo dice chiaramente. Ovviamente ci vogliono
sensibilità adatte, e queste sono quelle degli architetti, quelli
bravi però, perché hanno anche la giusta formazione. Dobbiamo
lasciare che facciano il loro lavoro, fiduciosi, noi, nel potere dell’architettura,
anche quella contemporanea che in Italia ancora spaventa. Ma affinché
questo avvenga dobbiamo prima tutti capire se la qualità del territorio
la vogliamo veramente e se siamo concretamente disposti a fare qualcosa
per ottenerla. Infatti prima di essere di ordine estetico la questione
è etica, attiene ai nostri comportamenti ed alle conoscenze e ai
valori che li inducono. E ci verrà più facile scegliere
se apprenderemo dalla fisica moderna che lo spazio e noi siamo la stessa
cosa, poiché fatti della medesima materia, onde e particelle; e
che continuare a considerare separato qualcosa con cui siamo inscindibilmente
legati e interagiamo di continuo è un errore con gravissime conseguenze.
Conoscere invece la vera essenza dello spazio fisico, le sue potenzialità
e come avvantaggiarsene è una nuova consapevolezza che, se nasce,
produrrà la spinta necessaria affinché il territorio non
sarà più sopraffatto, violentato, sfruttato ma, al contrario,
armonizzato tra le sue diverse parti, con l’uomo e con le leggi
del tutto.
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